Per un elogio dello studio. Stroncatura di “La passione ribelle” di Paola Mastrocola

Diversi mesi fa, Nicholas mi aveva fatto il nome di un testo di Paola Mastrocola, La passione ribelle, tessendo le lodi di quello che mi descriveva come un saggio sullo studio e su chi studia. Spinto dall’interesse che mi muove per questo tema – chi oggi si permette di elogiare un’attività così poco alla moda come lo studio si merita certamente tutta la mia attenzione – ho subito acquistato il saggio, per poi lasciargli prendere polvere per diverse settimane.     
Di recente, però, mi sono accordato con Anna (anche lei stregata dalle parole di Nicholas) per organizzare una lettura condivisa di questo saggio che tanto ci aveva intrigato. Lo abbiamo letto in poche settimane, e ieri ci siamo finalmente confrontati sui tratti più salienti del saggio, ma soprattutto sui suoi punti deboli, che a conti fatti superano di gran lunga gli aspetti positivi – e da quanto ho capito Anna ne conviene.

Ma procediamo con ordine. Come dicevo, La passione ribelle rappresenta un elogio dello studio e degli studiosi in generale, condotto soprattutto in un’epoca in cui, esordisce l’autrice (che, ricordo, è stata un’insegnante di liceo), «Lo studio è sparito dalle nostre vite» (p. 3). Un incipit lapidario, che non lascia spazio a spiragli di speranza per quegli sparuti ma appassionati studiosi cui il saggio sembra anzitutto dedicato. Non a caso, questi lettori privilegiati sarebbero proprio quei “ribelli” cui il titolo si riferisce.

Il progetto di Paola Mastrocola, mi dico, mi sembra davvero degno di nota e senz’altro molto coraggioso. Me ne rallegro, e molto ben disposto proseguo nella lettura.     
I problemi cominciano dopo le prime trenta pagine, quando inizio ad annotarmi – inizialmente incredulo, poi sempre più infastidito – frasi qualunquiste, fallacie argomentative, contraddizioni e petizioni di principio. Visto il risultato di questo lavoro di attenta annotazione che ho cercato di condurre sul testo, e l’elevato numero di annotazioni che vi ho apposto, ho deciso di parlare de La passione ribelle scrivendo quella che Michela Murgia chiamerebbe una “stroncatura” (se non sapete a cosa mi riferisco, vi invito a rimediare e a farvi qualche risata cliccando qui e qui).

La prima cosa che mi disturba, ideologica, ingombrante, è l’esaltazione di un passato nebuloso e mitico (dovrebbe grosso modo corrispondere a quello in cui Mastrocola ha studiato) cui i nostalgici si rivolgono per deprecare la decadenza della cultura e dell’istruzione odierne. Una sorta di grande calderone in cui inserire tutte le cose che un tempo funzionavano e che oggi, invece, sembrano troppo inadeguate. Il primo esempio è a pag. 31:

[Un tempo] si scrivevano le voci di enciclopedia […]; si facevano dizionari della lingua italiana, la cui composizione durava decenni e richiedeva il lavoro di redazioni molto affollate […]. Ora ci sono le enciclopedie on line, gratuite, approssimative, inaccurate, e spesso irresponsabili (Chi fa le voci? Tutti e nessuno, un generico e allargato anonimato. Quindi, chi ne risponde?).

Storco il naso, chiedendomi come fa l’autrice di un testo che pretende di essere chiamato “saggio” a dire una cosa così grossolana. Non posso pensare che lei non sappia che le stesse enciclopedie di cui parla si sono oggi aggiornate e ampliate, e sono disponibili solo nella loro versione parziale e gratuita on line – questo sì – ma solo per garantire la sopravvivenza economica degli istituti che le realizzano promuovendo l’acquisto della versione completa. Probabilmente, il prototipo di enciclopedia on line secondo Paola Mastrocola corrisponde a Wikipedia, che è a tutti gli effetti anonima, ma a cui chi studia non attinge praticamente mai. Che dire poi di una enciclopedia on line come la Treccani? Gratuita, ma non approssimativa: un facile controesempio a questa illazione troppo facilmente falsificabile.

L’apoteosi del mio attonimento è però alla riga successiva, dove leggo: «Ora c’è la laurea breve, quindi lo studio breve», una frase indegna di qualsiasi persona che in una qualsiasi università abbia messo piede anche una sola volta nella vita; frase, poi, così giustificata: «ti appiccichi quattro nozioni in croce, cerchi altre quattro nozioni in croce sul Web e via, vai a lavorare» (pp. 31-32). L’immancabile (inutile) menzione del Web non riesce a distogliermi dall’inaudita stupidità della deduzione di “studio breve” da “laurea breve”, soprattutto perché mentre leggo queste righe sono davanti alla libreria che contiene tutti quei libri che mi hanno accompagnato nell’esperienza triennale (“breve” è un termine che non esiste nella nomenclatura tecnica ufficiale) conclusa da pochi mesi. Che esperienza (o piuttosto che idea distorta) di università può avere una persona – pur laureata, rigorosamente sotto il sistema del vecchio ordinamento – che opera certe riduzioni? Lascio a voi la risposta.

Inizio ad abituarmi a ciò che leggo, e perciò non mi stupisce leggere, mentre Mastrocola cerca di dimostrare che l’interesse per lo studio sia sparito anche dalla politica, che i voleri dei politici a riguardo delle riforme scolastiche sono tradotte dai burocrati ministeriali «in proposte o norme di legge incomprensibili e indecifrabili». Peccato, mi dico, che l’autrice abbia ci abbia appena sciorinato il suo elogio dello studio, dimenticando che per arrivare a scrivere quelle tanto incomprensibili leggi il burocrate deve passare anni a studiare e a formarsi professionalmente. Paola Mastrocola non lo sa? Probabilmente finge di ignorarlo, per fare leva sul comune rigetto del cittadino medio verso il linguaggio tecnico della burocrazia e della politica. (Che poi, per dirla tutta, se un’insegnante davvero non riesce a comprendere un testo legislativo sul sistema scolastico, mi sembra questa la cosa grave. Ma tant’è).

Alla stessa pagina, così come precedentemente ha cercato di demonizzare internet e le nuove tecnologie, l’autrice tira una (inefficace) stoccata alla dimensione dello spettacolo, alle cui dipendenze questo deprecabile presente in cui viviamo si sarebbe sottomesso. «Tutto è essenzialmente spettacolo, dunque bisogna rendere conto agli spettatori, fare i conti con l’audience e la pubblicità. Fine. Non c’è posto certo per gli studiosi, lo share delle nostre esistenze sprofonderebbe in parametri bui». Dato che il suo encomiabile intento è quello di elogiare lo studio, vorrei segnalarle il lavoro di Paola Govoni, che in un recente saggio ha messo a fuoco, tra le altre cose, la dimensione spettacolare della scienza, in particolare nell’esperienza di alcuni letterati-scienziati che a partire dall’unità d’Italia si sono dedicati ad un’instancabile opera di divulgazione. Nella divulgazione, infatti, la scienza si spettacolarizza; lo studio si coniuga allo spettacolo come il docere al delectare, nella consapevolezza che l’impressione (dovuta alla componente spettacolare) può favorire sia la comprensione che la ritenzione mnemonica. Insomma – accordando all’autrice queste consapevolezze che io posso solo supporre – direi che lo spettacolo va bene, ma solo quando ci fa comodo. Altrimenti, va demonizzato.

Di poche pagine più avanti è la riflessione sui ricercatori di questa odierna e decadente università, i quali invece di studiare “e basta” – come Mastrocola vorrebbe, stando anche alla sua definizione di studio – sono “costretti” a occuparsi, loro malgrado, di didattica. Credo che un passo in particolare meriti una menzione per esteso; leggiamo a p. 37:

Poi han chiesto loro [ai ricercatori] di fare anche didattica. […] Li si obbligò a insegnare, a tenere sempre più corsi. Ovvero, ancora peggio: non li si obbligò ma li si convinse con la lusinga del “fare il professore”, avere un proprio corso, i propri studenti; non come la vecchia figura dell’assistente, che finiva più o meno portaborse del barone di turno. […] Certo li si lasciò liberi di fare anche ricerca, ci mancherebbe, ma di fatto la loro attività di puro studio non trovava più tempo, non era più utile, e quindi, che la facessero o no, non importava a nessuno.

Ovviamente falso! Anche in questo caso mi viene da osservare che chiunque abbia una minima dimestichezza con gli ambienti universitari sa che non esiste un ricercatore che sia libero di non ricercare, seppur “costretto” a fare didattica. Certo la didattica prende il suo tempo, così come anche gli esami nelle cui commissioni i ricercatori e dottorandi vari sono invitati a prendere parte, ma è fuorviante la ricostruzione secondo cui fanno solo didattica. E poi, anche i docenti di ruolo affiancano alla didattica a tempo pieno un lavoro di instancabile ricerca. Probabilmente sta anche al ricercatore, nei limiti della sua libertà di organizzarsi la didattica, la possibilità di far ruotare il corso attorno al proprio specifico oggetto di ricerca. Le cose, tendenzialmente, vanno così, con il benestare di (quasi) tutti.          
C’è poi la questione, certo non scontata, della valutazione: nel saggio vi è una denuncia molto sensata, che riguarda il fatto che i ricercatori stessi, piuttosto che essere spinti a condurre pochi studi ma in profondità, sono tanto più avvantaggiati quanto più pubblicano articoli e paper; nel farlo, non importerebbe la profondità di analisi, bensì solo il fatto di aver pubblicato qualche pagina anche solo approssimativamente abbozzata. Se la rivista (o quel che sia) su cui si pubblica è molto nota e autorevole, ancor meglio: la pubblicazione frutterà un punteggio ancor più elevato.       
Vorrei rispondere all’autrice che, sottesa al suo discorso, vi è una tacita omissione di quel meccanismo fiduciario che caratterizza il rapporto degli appartenenti all’istituzione che comunemente chiamiamo scienza; rapporto che, ad esempio, permette ad una commissione che ha il compito di valutare i titoli di un candidato di assegnare un punteggio alle sue pubblicazioni senza doverle necessariamente leggere. O Mastrocola crede che ogni membro di commissione legga interamente le pubblicazioni di ogni candidato? Suggerire una valutazione basata su una lettura celere ma disattenta è un atteggiamento tanto fideistico (in senso lato) quanto assegnare alla pubblicazione un punteggio sulla base dei supposti criteri di autorevolezza della rivista su cui il candidato è pubblicato. C’è però una differenza fondamentale, che è la seguente: la pubblicazione di un articolo su qualsiasi rivista degna di questo nome è sottoposta a dei rigidissimi controlli anonimi che prendono il nome di peer review e attraverso i quali il comitato scientifico della rivista decide, tendenzialmente con riserva, se l’articolo in questione sia o meno pubblicabile. I membri delle commissioni valutatrici, volenti o nolenti, sono tenuti a fidarsi dei loro colleghi dei comitati scientifici. Ecco perché tante pubblicazioni, che vedremo Mastrocola dirà «ridicole, incompiute, scopiazzate, solo per far punteggio, inseguire impact factor e citazioni, scalare carriere» – non vedo comunque come potrebbero essere tali, considerato l’inevitabile processo di peer review cui devono sottostare –, in sede di valutazione possono valere più di un unico studio di trecento pagine, magari pubblicato a pagamento da un editore poco interessato alla sua validità scientifica.

Ma a proposito di università Mastrocola ha ancora qualcosa da dire:

Non sembra a tutti evidente che sarebbe migliore un mondo in cui […] gli studenti d’università potessero studiare in pace invece di dare esami uno dietro l’altro come in una catena di montaggio? (p.47).

L’appello lanciato al lettore è quello a considerare un mondo “migliore” – che immagine romantica! –, un mondo in cui gli studenti non dovrebbero avere alcuna fretta nello svolgere i loro esami. Per carità: è vero! Ma non mi si venga a dire che l’università di oggi (mi limito a parlare delle facoltà umanistiche, dato che anche l’autrice usa questo metro) non dà agli studenti il tempo che effettivamente serve loro per sostenere tutte le attività accademiche. E se anche uno studente non volesse sostenere tutti gli esami previsti dal piano degli studi per ogni anno accademico, potrebbe sempre fare richiesta dello status di studente-lavoratore, sostenendo la metà degli esami e pagando metà delle tasse ogni anno, laureandosi nel doppio del tempo previsto ma avendo anche la possibilità di lavorare, magari con un contratto part-time. L’immagine degli esami sostenuti come in una catena di montaggio è ancora una volta fuorviante, e mi sembra che con essa l’autrice strizzi implicitamente l’occhio agli studenti che, pur con la migliore volontà, restano parcheggiati per anni in università, in virtù dello stesso rifiuto verso l’idea di un’università-catena di montaggio espresso dall’autrice. Cui, anzi, mi sento di dire: darsi un obiettivo e cercare di rispettare una tabella di marcia non significa dare esami come se si fosse in una catena di montaggio. Allo stesso modo, prendersi il proprio tempo nel dare gli esami (scelta lecita, a patto che sia una decisione autonoma) non significa sottrarsi ad una catena di montaggio che qualche anonimo potere cercherebbe di imporci.

Un ultimo riferimento all’università è infine nella citazione del romanzo dell’autrice stessa il quale ha per protagonista Fil, un ragazzo da poco laureato che rifiuta un dottorato. Il romanzo (il cui titolo non viene menzionato) è Non so niente di te (Einaudi 2013), e così ce lo presenta Mastrocola:

[Fil] Vince un meraviglioso dottorato a Stanford ma a quel punto, scandalosamente, rifiuta. Si fa indietro, non ci va, rinuncia a quei tre anni in America, a una brillante camera. Si ferma. Vede gli altri andare di corsa su un enorme tapis roulant sempre in movimento, e gli sembrano pazzi. Lui vuole scendere. Si ferma nelle campagne inglesi e si mette a pascolare pecore. E sapete perché? Perché vuole studiare! L’università gli va stretta, lo opprime. Troppi corsi, troppi esami, troppi test, numeri chiusi, performance dove arrivare sempre primo, competere, vincere, sbaragliare nemici che lui non vuole avere, farsi avanti sgomitando, pubblicare quattro pagine ridicole, incompiute, scopiazzate, solo per far punteggio, inseguire impact factor e citazioni, scalare carriere. (p. 99)

Ecco di nuovo che l’obiettivo polemico si focalizza sui meccanismi di un’università ritenuta alienante e spersonalizzante. In sua difesa (dell’università, non dell’autrice) c’è però da ricordare che, ormai divenuta di massa, essa non può esimersi dall’assumere determinati criteri di valutazione e dall’imporre una competizione serrata e spesso dura. Altrimenti, come si può garantire la meritocrazia? È forse più importante, Paola, che il dottorando non si senta il fiato sul collo? Cosa pesa di più, sulla bilancia?       
Verso la fine del saggio, si accenna però alla conclusione parzialmente inespressa del romanzo:

Fil a un certo punto se ne va, si scollega, spegne tutto. Scende dal treno in corsa, e sta. Sceglie di stare. Fermo. Solo, scollegato. A studiare i classici con le pecore intorno. […] Fil ha potuto pensare. E studiare. Ed è riuscito a inventare una nuova teoria economica, una formula, che poi ha migliorato il mondo. (p. 136)

Su come Fil sia riuscito a raggiungere un obiettivo così alto senza neanche iniziare il dottorato, nulla ci è dato sapere. Probabilmente leggeva Marx mentre pascolava le pecore. Forse l’immagine si commenta da sé.
Ai giovani come Fil, Paola si sente di dare un consiglio spassionato:

Preferiamo che [allievi e figli] si sbattano a destra e a manca per infarcire un curriculum di lavori e lavoretti, magari solo di una settimana o due, senza alcun nesso logico tra di loro che sia in grado di indicare anche solo genericamente una direzione… Lavori, titoli, stage: così, random, che li costringono a muoversi all’infinito, girovagare da un posto all’altro, randagi, confusi, sballottati da un universo all’altro. Perché non suggeriamo loro di stare un po’ fermi, di mettersi per esempio da qualche parte un anno a studiare filosofia greca o fisica quantistica? (p. 104)

Perché? Perché è inutile! Non perché sia inutile la filosofia greca (o la fisica quantistica) ma perché studiarla per un solo anno non porterebbe da alcuna parte. Non ci si può improvvisare specialisti! Per arricchire un curriculum professionale è naturale che un’esperienza concreta e testimoniabile come un contratto di lavoro – sì, anche di sole due settimane – sia più efficace di un anno passato a studiare la fisica quantistica, tra l’altro per i fatti propri, in maniera informale. Altro discorso sarebbe da fare per un master universitario, ma certo non vi si può accedere senza un titolo accademico già conseguito; in tal caso, comunque, nell’ottica dell’autrice si ritornerebbe nel discorso sull’università e la sua deprecabile (?) competitività. Un circolo vizioso senza fine.

Mi sembra insomma che Mastrocola abbia un ricordo molto vago dell’università, ma a quanto mi risulta la stessa vaghezza deve aver contaminato il suo ricordo della scuola secondaria, dove pure ha insegnato per molti anni. L’ardua sentenza sui libri di testo arriva pronta, inappellabile: «[oggi] si studia solo sui libri di testo, su manuali sempre più smilzi» (p. 41). Ancora una volta mi guardo attorno, cercando con lo sguardo i manuali su cui ho studiato sia al liceo che negli anni della triennale, e penso: “Ma che diamine di manuali ha in mente!?”, ancor più se penso che nella sua vita Paola Mastrocola ha insegnato Lettere, e il mio manuale di Letteratura italiana dell’ultima classe del liceo contava ben 1700 pagine spalmate in due tomi. Sarà anche questo un manuale «smilzo»? Mi rimetto alla sentenza dell’esimia giudice.       
E ancora, sempre relativamente alla “decadenza” della scuola italiana, ecco la denuncia di un fatto increscioso:

[…] i banalissimi esercizi di grammatica che assegniamo a casa: se [gli studenti] decidono di farli, si limitano a compilare a matita sul libro o a pasticciare abbreviazioni illeggibili. Quasi nessuno ricopia sul quaderno, scrive le frasi per intero, allinea per bene le parole in verticale.

Certo. Se fossi stato l’autrice, avrei anche lamentato la sempre più rara attitudine degli studenti a intervallare gli esercizi con delle greche, magari colorate, che allietassero la vista dell’insegnante-correttore. Come se ciò che è realmente importante non fosse il consolidamento delle conoscenze e delle competenze nell’alunno. Sorvoliamo.        
Passiamo piuttosto al tema della valutazione, approfondendo il quale l’autrice banalizza in maniera molto riduttiva la questione delle risposte a crocette:

Se davanti all’Infinito di Leopardi, chiediamo se la siepe è un ostacolo alla vista o uno stimolo alla fantasia, non è possibile scegliere cosa crocettare, perché la siepe è tutte e due le cose, ed è anche molto di più. Fatecelo ancora dire questo di più, per favore! (p. 95)

D’accordo, che le crocette siano spesso un limite è assodato, ma quale insegnante porrebbe mai una domanda di questo genere (la poesia è intrinsecamente polisemica; una crocetta sarebbe forse più indicata per una domanda specifica sulla parafrasi) dando come possibilità di risposta due crocette parimenti valide? Ancora una volta, sta all’insegnante decidere dove è più opportuno usare la risposta multipla, e dove è invece necessaria una risposta aperta, diffusamente argomentata (magari in un tema o in una interrogazione orale!). Non è giusto che passi il messaggio che l’alunno, quando ne avesse voglia, dovrebbe poter parlare di ciò che vuole sulla base delle sue suggestioni di analogia, pur argomentabili. No: deve anche imparare ad essere sintetico, e a dare una risposta commisurata a ciò che gli viene chiesto. Bisogna distinguere un tema da una verifica in stile filologico. Assimilare le due cose genera confusione e rappresenta una fallacia argomentativa indegna di una professoressa.

Insomma, La passione ribelle mi è parso un saggio frettoloso e grezzo, e le grossolanerie che vi ho letto hanno superato di gran lunga gli aspetti positivi (che comunque ci sono: il significato complessivo di questo scritto – l’elogio dello studio come attività puramente disinteressata – è tra questi). Aspetti positivi che però faticano a emergere nel mare di queste futilità che sommergono il lettore. Non mancano le invasioni di campo nelle discipline che certo non pertengono alla formazione dell’autrice: se da una parte scrive una sciocchezza come «Platone deplorava la nascita della scrittura» (p. 69), dall’altra pensa di poter dare una stoccata a un gigante dell’antropologia come Michel Serres pretendendo di ridurre alcune sue argomentazioni a meri espedienti retorici (p. 50); il tutto condito con una buona dose di rimpianti nostalgici di quel passato tanto ostentato fin dall’inizio del saggio (a p. 100 arriva a lamentare il fatto che nessuno scriva più trattati o canzonieri). Cara Paola, dato che lamenti anche il fatto che nessuno scriva più per i posteri (p. 31), una cosa la voglio scrivere io, per i posteri. Il tuo tentativo di elogiare lo studio come atto puramente disinteressato (tesi che comunque non condivido: credo che lo studio sia sempre uno strumento – come anche lo definisci tu – finalizzato a qualche obiettivo, anche se questo non necessariamente lo svilirebbe) è realmente degno di nota. È un tentativo encomiabile e da incoraggiare senza sosta. È la modalità su cui dobbiamo lavorare. In un saggio sullo studio e su chi studia – sui “ribelli”, come li chiami tu – sarebbe forse opportuno non leggere certe cose. Se non altro, affinché non passi il messaggio che l’atto veramente ribelle sia quello di scrivere un saggio in cui ogni parola sia opportunamente pesata.

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